Nel marzo 1990 il piccolo Shí Yáng (石洋), di undici anni, intraprende con la madre il viaggio che lo porterà in Italia, a Milano. Una storia di immigrazione come tante: la differenza sta nel fatto che questa è la prima che ci viene narrata, in prima persona, dall’autore, che regala al pubblico italiano nel primo libro – in italiano – pubblicato da un cinese d’Italia (Cuore di seta di Shí Yáng Shí, Mondadori, 2017).
È chiaro da subito che Shí Yáng e la madre non scappano dalla Cina per indigenza. La famiglia di Shí Yáng è rispettabile, benestante, ma i suoi genitori sanno che, pur essendo entrambi professionisti laureati (la madre è medico, il padre ingegnere meccanico), non potranno mai assicurare al bambino un futuro luminoso, basato sull’accesso a scuole prestigiose. Per questioni di censo, in Cina il piccolo Shí Yáng non potrà diventare un “piccolo drago”, ossia la promessa vivente di un futuro radioso e di successo, per sé e la propria famiglia. È con la dedizione tutta orientale quindi che i genitori di Shí Yáng, e soprattutto la madre (il padre riuscirà a raggiungerli solo dopo molti anni) sacrificano vita, lavoro e famiglia per l’unico figlio consentito alla loro generazione.
Durante il viaggio, e all’arrivo in Italia, saltano agli occhi del piccolo Shí Yáng le differenze culturali con la madrepatria: in Occidente l’acqua non va bollita per renderla potabile (anzi, si può bere anche fredda), e soprattutto è diverso l’approccio alla formazione, considerata in Cina un assoluto privilegio: «Mentre pian piano imparavo l’italiano, mi rendevo sempre più conto di una cosa: in Italia l’istruzione non era poi così importante. O almeno, non era importante come lo era in Cina. […] I miei compagni chiacchieravano in classe, e nessuno sembrava preoccuparsi più di tanto se l’insegnante, quando era proprio esasperata, lo richiamava o gli scriveva una nota sul diario. Anzi, qualcuno sghignazzava pure. Io non avrei mai avuto il coraggio di dare un simile dispiacere ai miei genitori. Tutta la loro vita era votata a che potessi avere la migliore istruzione, e il fatto che fossi figlio unico, come d’altronde tanti miei ex compagni cinesi, non faceva che appesantire il carico sulle mie spalle» (p. 50).
E Shí Yáng, o meglio il Cuore di Seta di Shí Yáng, si rende presto conto che la chiave del riscatto dalla condizione di straniero (e dell’autostima) sono l’istruzione e la padronanza della lingua, pur appresa a discapito della lingua madre: è grazie al suo impegno nello studio, alla sua facondia e allo spirito positivo e ottimista che esce indenne da una stagione trascorsa in Calabria come sguattero in un grande albergo (con i passaporti suo e della madre ritirati dal padrone) e da intere estati trascorse sulle spiagge romagnole ad aiutare il padre (finalmente giunto in Italia) a vendere chincaglierie e fare i massaggi orientali, costruendosi un’identità ibrida, «anfibia», ma ricca delle sue due culture di partenza e di arrivo, profondamente diverse. E di nuovo la chiave – o meglio il grimaldello – per la comprensione delle due culture sono la lingua e la scrittura.
Una storia di integrazione, quella di Cuore di seta di Shí Yáng, nella quale di integrazione non si parla mai, perché il fulcro di questo “romanzo di formazione” è l’autoaffermazione dell’individuo, che grazie al proprio valore e all’impegno si emancipa e trova un suo ruolo nella società, che è anche quello di diventare un modello, come quel Superman (Christopher Reeve) tanto amato nell’infanzia.