La Giunta delle Filippine di Goya (1815)

La Giunta delle Filippine di Goya (1815)

La Giunta delle Filippine (Junta de la Compañía de Filipinas) è tela più grande che Francisco Goya ha dipinto, conservata al Musée Goya di Castres in Francia. Risale al periodo in cui le Filippine erano parte del grande impero coloniale spagnolo, e rappresenta un evento storico: la sessione del 1815 del consiglio della Real Compañía de Filipinas presieduto dal re Ferdinando VII.

La Real Compañía de Filipinas era una società commerciale, istituita il 10 marzo 1785 per un regio decreto di Carlo III di Spagna, che assunse le funzioni fino ad allora svolte dalla Compañía Guipuzcoana de Caracas, ente che dal 1730 gestiva il ricco monopolio del commercio in Venezuela. Quando la corona spagnola ritenne che una compagnia monopolistica a controllo dello sviluppo in Venezuela non fosse più necessaria, perché l’economia venezuelana era ormai matura e fortemente integrata nei mercati della Spagna e del Vicereame della Nuova Spagna sudamericana, i proprietari della Compañía Guipuzcoana e il direttore, Francisco Cabarrús, la trasformarono nella Real Compañía de Filipinas. Il suo scopo era l’unificazione del mercato dell’America a dell’Asia attraverso la colonia delle Filippine e la promozione dello scambio diretto tra le Filippine e la Spagna. Prevedendo la chiusura del porto di Manila a qualsiasi nave straniera, il regio decreto assegnava alla società un ruolo fondamentale nella gestione del circuito delle merci tra Messico, Cina, Indie orientali ed Estremo Oriente. La Real Compañía de Filipinas puntò, oltre allo sviluppo commerciale del porto di Manila e della rotta Manila-Cadice, al potenziamento delle colture per l’esportazione: indaco, caffè, zucchero, spezie, cotone. La cattiva amministrazione della società nel periodo del regno di Fernando VII ne causò la crisi e il conseguente scioglimento nel 1834.

La giunta delle Filippine attraverso il pennello di Goya

La giunta della Real Compañía de Filipinas era l’incontro annuale dei 51 membri della società (amministratori e azionisti). Re Ferdinando VII, intendendo ampliare il suo patronato alla giunta, fece una visita inattesa alla sessione plenaria del 30 marzo 1815. Il 15 aprile la Compañía chiese al ministro delle Indie Miguel de Lardizábal y Uribe (1744-1823) il permesso di immortalare l’eccezionale evento con un’opera commemorativa. Lardizábal diede il suo consenso e José Luis Munárriz (1762-1830), direttore della Compañía, commissionò prontamente l’opera al pittore aragonese. L’anno della Giunta delle Filippine di Goya è inoltre una data storica: il congresso di Vienna, tra 1814 e 1815, aveva posto fine agli ideali della Rivoluzione francese diffusi in tutta Europa dagli eserciti napoleonici, e il reazionario e tirannico Fernando VII di Borbone, tornato l’anno precedente dall’esilio in Francia, si era reinsediato sul trono dell’impero coloniale spagnolo.

Il re è rappresentato con grande sfarzo al centro della composizione (fulcro di tutte le fughe prospettiche della sala, comprese quelle del sontuoso tappeto orientale sul pavimento), seduto a un imponente tavolo e affiancato dal consiglio di amministrazione (alla sua sinistra José Luis Munárriz). Gli altri membri dell’assemblea (gli azionisti) sono divisi in due ali, seduti su due lunghe panche parallele separate al centro della sala da un tappeto. La luce, grande protagonista della composizione, proviene da un’unica fonte (una grande finestra sulla destra dello spettatore); il suo andamento, ispirato a quello de Las Meninas di Velázquez, rende l’atmosfera solenne e ovattata della sala cerimoniale e scorre da destra verso sinistra sul pavimento, tocca il re e le figure al tavolo in fondo alla sala, mette in risalto i volti di Lardizábal – relegato in disparte, per motivi che vedremo – e degli azionisti a sinistra.

L’ingiustizia del potere di Ferdinando VII

La centralità del sovrano e il fascio di luce che inonda la sala non bastano però a “illuminare” l’assemblea né la Compañía de Filipinas: Goya sapeva benissimo che la comparsa del re era solo un’improvvisata cerimoniale, e che la sua politica dispotica, fondata sul potere assoluto e sul terrore piuttosto che su un reale consenso, non avrebbe salvato l’enorme impero spagnolo da un rapido declino. La sua partecipazione alla giunta di un organismo a controllo del commercio internazionale quindi, nonostante potesse far supporre un concreto investimento della corona nei piani internazionali, non portò a significativi miglioramenti nella gestione e nel patrimonio della Compañía de Filipinas.

La Giunta delle Filippine di Goya è lo specchio di una monarchia incapace, di un’economia messa in ginocchio dalla Guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814) e di un impero coloniale sull’orlo del tracollo: la Real Compañía de Filipinas, nata come potente strumento di controllo e incentivo dei commerci sul modello della Compagnia delle Indie Orientali britannica, era talmente indebitata e inefficiente da essere poco più, per i suoi membri, di una mera onorificenza, e sarebbe stata appena diciannove anni dopo.

La Giunta delle Filippine di Goya solleva anche la terribile questione dell’ingiustizia del potere: di fronte alla reazione assolutista del 1815 il pittore, legato alle idee dell’Illuminismo, mette in scena un’accozzaglia di personaggi ritratti in pose grottesche, che la luce mostra mentre si agitano sulle panche, si guardano in giro annoiati o sonnecchiano, al pari dei membri del consiglio di amministrazione, marionette di un potere tirannico e arrogante. Il genio di Goya trasfigura la giunta in una parabola storica di sorprendente modernità, dominata da un sovrano, Ferdinando VII, colpito da un misterioso fascio di luce ma non per questo illuminato, intento a perseguitare i propri sudditi mantenendoli nella paura: il ministro delle Indie Miguel de Lardizábal, ardente patriota e strenuo difensore dei Borboni durante le guerre napoleoniche, fu incarcerato ed esiliato per ordine della corona nel settembre dello stesso anno, prima che Goya potesse completare la grande tela. È per questo che il pittore, d’accordo con i committenti, non raffigurò l’ex ministro caduto in disgrazia alla destra del sovrano, ma nel vano della porta a sinistra del quadro.

Analoga sorte di esule toccò poi allo stesso Goya, che nel 1819, decaduto dai propri privilegi e ormai disgustato dalla corte e dal feroce assolutismo di Ferdinando VII, si ritirò prima in campagna, alla periferia di Madrid, poi a Bordeaux.

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