Pankaj Mishra, romanziere e saggista indiano in lingua inglese, pubblica nel 1995 la sua prima fatica editoriale, Butter Chicken in Ludhiana: Travels in Small Town India (ed. it. Pollo al burro a Ludhiana. Viaggio nell’India delle piccole città, Guanda, 2003, trad. di F. Oddera), un “travelogue” che registra le impressioni di un viaggio che lo porta, nei primi anni Novanta, in tutta l’India, non quella delle grandi mete turistiche ma un’India insolita, fatta di villaggi e piccole città, da nord a sud e da est a ovest. È l’India di Pankaj Mishra, un viaggio disordinato, senza un vero e proprio itinerario, raccontato da un “insider” tutt’altro che partecipe di quello che osserva.
La voce narrante è infatti l’aspetto più intrigante – che a tratti disorienta – del libro. Bramino, vegetariano e astemio, colto e intelligente, Mishra non è certo il reporter coinvolto nelle situazioni di cui è spettatore, o che le guarda da una prospettiva romantica: i piccoli centri che visita, cui giunge con mezzi di trasporto terribilmente scomodi e che sono puntualmente sforniti di strutture ricettive, sono quelli di un’India rumorosa, moderna, squallida e sporca, l’opposto dello stereotipo di esotismo che la nazione riveste agli occhi degli occidentali. Con precisione chirurgica l’autore registra meticolosamente ogni dettaglio, esamina le situazioni senza dare niente per scontato, analizza in profondità la società indiana dei primi anni Novanta, restituendocene un ritratto impietoso.
Non bisogna però confondere il distacco emotivo con la presunzione: il viaggio di Mishra è fatto di incontri con persone di ogni condizione, colte nella loro spontaneità, descritte con dovizia di particolari nelle loro aspirazioni. Ecco quindi la ragazza di Jhansi che sogna di diventare una modella, i tre uomini d’affari di Kanpur che progettano un viaggio a Londra e sono preoccupati per il loro inglese, le loro buone maniere e i loro abiti, o i classici “figli di papà”, prime vittime inconsapevoli del consumismo: la figlia di certo signor Sahrma, di Ambala, che usa solo il sapone Camay di importazione e guarda Beautiful in televisione e i figli degli uomini d’affari di Shimoga, che girano in Maruti e sperperano il patrimonio di famiglia.
Nella piccola folla di indiani ritratti nel libro si riflettono i mutamenti sociali e culturali del Paese sotto l’influsso della globalizzazione, che si manifesta nelle miriadi di parabole che crescono sui tetti delle case e che rimbalzano nell’etere stili di vita e di comportamento omologanti, fatti di vuoto e volgarità. Nel giro di una generazione le radici secolari della tradizioni risultano ormai definitivamente erose, travolte da una forma di alienazione che muta il paesaggio, gli uomini e i rapporti reciproci tra di essi, nella cornice delle piccole città che aspirano a emulare le grandi metropoli.
L’India di Pankaj Mishra occhieggia gli Stati Uniti di Bill Bryson di America perduta. In viaggio attraverso gli Usa (di cui cita il titolo inglese: The Lost Continent: Travels in Small-town America, 1989) e l’amaro V. S. Naipaul di Una civiltà ferita: l’India (1977, trad. it. Adelphi, 1997), restituendoci, nel ritratto del lato sconosciuto dell’India di inizio anni Novanta, una testimonianza precoce di quello che nel 2017 ha messo in luce in The Age of Anger (L’era della rabbia, Mondadori): siamo invischiati in un mercato mondiale omologante, in cui gli esseri umani sono programmati per perseguire senza freni il proprio interesse personale (sulla scorta dell’individualismo di matrice occidentale) e aspirare alle stesse identiche cose, a prescindere dalla propria cultura di provenienza e dal temperamento individuale.