Elizabeth Hamilton Gray e l’Etruria: il rapporto tra una grandtourista inglese e l’etruscologia dell’Ottocento, in un suggestivo racconto di viaggio.
Elizabeth Caroline Hamilton Gray (1801-1887) è una singolare figura di viaggiatrice inglese, protagonista del lungo cammino di emancipazione femminile nel XIX secolo, anche nel campo del sapere, nonché prima donna alla scoperta dell’Etruria resa famosa dalla sua opera letteraria. La passione per l’archeologia, e soprattutto per le antichità etrusche, nacque in Elizabeth (benestante moglie del reverendo John Hamilton Gray) durante la visita alla prima mostra di Antichità Etrusche fuori d’Italia, promossa nel 1837 dai fratelli Campanari a Londra e allestita nella Galleria Pall Mall. Elizabeth rimase letteralmente affascinata dalle suggestive ricostruzioni di sepolcri etruschi in sale illuminate da torce, e dai resti delle pitture funerarie, tanto che, insieme al marito, intraprese (anche per ragioni di salute) un viaggio in Italia, a Roma, dove ebbe l’insolita (per una donna) opportunità di frequentare le lezioni di archeologia che insigni studiosi tenevano presso l’allora Istituto di Corrispondenza Archeologica (poi Istituto Archeologico Germanico) sul Campidoglio.
Il rapporto tra Elizabeth Hamilton Gray e l’Etruria fu però più profondo di un’erudizione: approfittando della sosta a Roma, accompagnò le nozioni acquisite con escursioni “sul campo” in Etruria meridionale, a Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Tuscania, Castel d’Asso, Chiusi, di cui Elizabeth lasciò nel suo libro – Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839 (edito a Londra nel 1840 e in varie edizioni successive) – un resoconto in forma di racconto di viaggio. Per evitare però che la sua opera fosse considerata dalla società un atto di arroganza e venisse criticata dagli eruditi e dagli intellettuali (tutti rigorosamente uomini), nell’Introduzione scrisse che si doleva del fatto che la sua scarsa cultura e la sua fragile memoria («female mind») non le avessero permesso di comporre un’opera migliore, aggiungendo che il libro non era destinato a un pubblico di studiosi, bensì agli “ignoranti”, che avevano limitate conoscenze di storia e archeologia, e ai “turisti”, in genere poco preparati sui luoghi antichi che andavano a visitare: un britannico – e non privo di autoironia – atteggiamento di understatement.
Mi è stato suggerito che, per interessare il pubblico che legge i contenuti di quest’opera, dovrei, prima di descrivere i sepolcri dell’Etruria, scrivere un’introduzione su questi sepolcri stessi, perché in Inghilterra questo argomento è ancora troppo poco conosciuto. Nessuno ha sentito più acutamente di me il dolore di attraversare un museo o di visitare una rovina, del tutto ignara dei suoi oggetti e della sua storia, accompagnata da una persona colta ma poco comunicativa, o guidata da esperti che parlano tra loro come se appartenessero a una sorta di società segreta, che vi parlano come se conosceste usi e costumi di società antiche di cui non avete mai sentito parlare, eventi di cui non avete mai sospettato l’esistenza, e usano parole dal significato oscuro. Siete quindi obbligati a mostrare di ammirare ciò che appare estremamente brutto, ad attribuire ogni sorta di valore e merito a cose semidistrutte, incomprensibili e orrende, che dentro di voi pensate si sarebbero potute tranquillamente gettare via. In conclusione, quello che speravate fosse un grande piacere si rivela davvero una grande noia. Per quanto riguarda l’Etruria in particolare, è necessario avere una buona guida se vogliamo capire e apprezzare i suoi resti, trattandosi di una civiltà così poco conosciuta.
Ma la scoperta dell’Etruria di Elizabeth, donna dotata di intelligenza, curiosità e franchezza espressiva, è anche indagine sul folclore delle terre visitate, e interessante testimonianza dello stato di conservazione delle antichità a poca distanza di tempo dalla loro scoperta. Scrive della Tomba (da lei definita «grotta») del Triclinio a Tarquinia, scoperta nel 1830, nove anni prima della sua visita:
Ai lati della porta ci sono due giovani cavalieri seduti di lato sui loro destrieri, seminudi e con le lance in mano. L’immagine della parete di fondo rappresenta tre letti, ognuno dei quali contiene un uomo e una donna. Davanti a due di essi ci sono tavolini apparecchiati con vasi, e davanti al terzo c’è un grande recipiente dal quale viene versato il vino in coppe più piccole, consegnate agli ospiti da un giovane schiavo. Bellissimi sono i rivestimenti dei tavoli e dei letti, così come gli splendidi abiti da festa degli ospiti e le loro corone di edera e di olivo. Un musico riccamente vestito sta suonando il
doppio flauto, mentre gli ospiti si guardano tra loro in atteggiamenti diversi e con gesti vivaci, e sembrano molto più impegnati nei doveri sociali che in quelli della tavola, ma la festa è già iniziata, perché una delle signore è nell’atto di rompere un uovo, e uno dei convitati sta ricevendo una coppa di vino.[…] Il rumore dei piatti e l’odore delle carni hanno attirato al banchetto un leopardo addomesticato, una pernice e un gallo, che raccolgono assiduamente le briciole dei manicaretti sotto ai letti. Terminata la festa funebre inizia la danza. Il balletto è composto da otto persone, con due musici, un suonatore di lira e uno di doppio flauto, che pure prendono parte alle danze. La prima danzatrice muove le mani come se avesse le nacchere, mentre all’altra regge una corona d’edera, con la quale la maggior parte di esse è cinta. Accompagnano la danza con un vivace movimento della testa e delle braccia, che mi ha ricordato la tarantella. Il signor Avolta [la guida, n.d.a.] però rivendicava il ballo come originario di queste zone e tramandato fino ai tempi della sua giovinezza, anche se poi caduto in disuso: mi ha detto di aver ballato in questo modo quando era ragazzo, ma si lamentava che ora le danze e le mode francesi stessero cancellando tutte le loro usanze nazionali.
[…] In questa grotta, alla sua prima apertura, sorgeva un sarcofago in travertino molto grande e bello. L’effigie sul coperchio presentava, come al solito, un uomo riccamente vestito e dotato di ogni sorta di ornamenti; teneva in mano una coppa per la libagione. Credo che il sarcofago fosse vuoto. È stato portato via, copiato e inciso, e l’originale è stato venduto.
[…] Parlando di questa tomba, dice il Signor Carlo Ruspi [autore del primo facsimile completo di una tomba etrusca mai realizzato, commissionato dalla Commissione Consultiva delle Antichità e Belle Arti del Governo Pontificio per le collezioni vaticane e consegnato nel dicembre del 1833, n.d.a.], che se l’umidità che copriva le pareti subito dopo la sua prima esposizione all’aria fosse stata accuratamente eliminata, e il tutto fosse stato poi lavato con acquaragia, l’insieme dei colori si sarebbe conservato.
Non esiste, al momento, una traduzione italiana integrale del Tour to the Sepulchres of Etruria in 1839. Le citazioni presenti sono traduzioni e adattamenti di chi scrive. Per approfondire il tema di Elizabeth Hamilton Gray e l’Etruria:
- Elizabeth Hamilton Gray, The history of Etruria, London, 1843-1844 (part I: 1843, https://archive.org/details/historyofetruria01gray; part II: 1844, https://archive.org/details/historyofetruria02gray).
- Francesca Orestano, Gli Etruschi nella memoria culturale britannica, tra Otto e Novecento: ovvero il sublime fascino di un braccialetto, in Fascino etrusco nel primo Novecento. Conversando di arti e di storia delle arti, Atti dell’incontro di studio (Milano, 7 ottobre 2015), a cura di Giovanna Bagnasco Gianni («Aristothonos» 11), Milano 2016, pp. 145-176.
- Micaela Merlino, Elizabeth Caroline Hamilton Gray: l’etruscomania di una vivace “female mind”, in «La città. Quotidiano di Viterbo e Provincia», 31 Agosto 2017.